“Attraverso le mie opere” di Sara Bastianini

(In forma di monologo)

“Renko in bilico”, PoliArt Contemporary, Milano – Galerie Leonhard, Graz – Maab Studio d’Arte, Padova

Febbraio 2013


Ho sempre vissuto la creatività come componente fondamentale della mia vita e, per un verso o per l’altro, l’arte e il design ne sono state le due polarità costitutive. Potrei persino dire che arte e design sono per me una dentro l’altro. Credo che sia proprio così. O, forse, sarebbe meglio dire che si ha una dicotomia, di cui l’arte e il design sono le parti complementari, costituenti quell’entità unica che è la vita? Se prendo un pezzo di carta e una matita, forse riesco a spiegarmi ancora meglio. Ecco, quando realizzo su carta il progetto di un’opera, sento che mi avvicino al design: è proprio come se il mio ruolo altalenasse e ondeggiasse sempre, indipendentemente da ciò che voglio realizzare. Ad ogni modo, ho sempre creduto che non ci sia distinzione tra arte e vita: se è vero, infatti, che l’oggetto utile vive per la propria funzione, in esso sempre vive e respira il modo di essere di un’epoca intera e questo c’entra sempre con l’arte.

Per quel che riguarda il mio lavoro, ho sempre ricercato la semplificazione delle cose, scarnificandole dal superfluo e per trattenere soltanto pochi elementi e un’onestà, una sobrietà, una pulizia, una chiarezza e un rigore, che abbiano a che fare con il materiale povero del canneté, con il pennello che applica il colore, con i bianchi e i neri e con i segni e i lineamenti da me tracciati. A proposito, quelle linee, le disegno talvolta con un pennarello acrilico e talvolta con un tiralinee. Il tiralinee? Lo acquistai in un negozio alcuni anni fa, o forse più di alcuni, non ricordo, sono pessimo con la memoria…era lì come un cimelio, sopravvissuto a chissà quali passaggi di anticaglie; è stata dura riuscire ad addomesticarlo e legarlo con la mia mano: tuttora capita che su un passo di danza inciampi esca una linea più spessa delle altre che, per quanto minima, dichiara la propria differenza; anche questo vuol dire lavorare completamente a mano libera, giusto?

Ho iniziato così. La doppia faccia di un cartone da imballaggio, il canneté, il concavo ed il convesso, il crinale e la sua depressione. È affascinante pensare alla vibrazione continua di un’onda ripetuta all’infinito, di cui utilizzare sempre il ventre e mai la cresta. Alcuni hanno cercato di riconoscere assonanze tra il materiale che utilizzo e la mia passione per il mare, con i pericoli e i rischi del navigare tra le mie onde. Mi dispiace contraddire, forse spoetizzando un po’, ma, francamente, la scelta del canneté fu puramente utilitaristica e anche casuale: forse ho semplicemente cominciato a utilizzare ciò che avevo a disposizione, per ottenere gli effetti di mutevolezza percettiva che andavo ricercando. Comunque, può non essere stonato affermare che Renko cerchi di navigare nelle onde del canneté, così come cerca di navigare nel mare, perché ogni riga del canneté ha un proprio respiro, così come ogni onda del mare ha la propria corrente da seguire.

Come vi dicevo, il canneté è un materiale povero di origine industriale, utilizzato da sempre per imballaggi di svariatissimo genere, è di sottile spessore e può avere onde di tre misure diverse: piccole, medie e grandi. Essendo l’onda piccola più fitta, mi permette di tracciare soltanto due linee, nella sua salita e nella discesa, ma non nel ventre: in questo modo riesco a ottenere soltanto una doppia mutevolezza percettiva, secondo l’incidenza dello sguardo dell’osservatore. Nell’onda media e nell’onda grande, invece, si riesce ad avere maggior sfumatura, perché l’ampiezza mi permette di disegnare anche il ventre dell’onda. Ne deriva maggiore ricchezza nel disegno, aggiungendo la visione frontale dell’opera.

Per molto tempo non sono riuscito a lavorare su grandi dimensioni, perché in commercio i rotoli di canneté hanno l’altezza massima di un metro. Un giorno, poi, ho scoperto che in Olanda ne producono una tipologia di dimensioni maggiori, che mi ha dato subito l’occasione per dare sfogo alle mie “manie di grandezza”: da quel giorno chiamo questo materiale “l’olandese”.

Se non è troppo noioso, ora vorrei fare quattro passi nel mio passato.

Quando ero studente all’Istituto Statale d’Arte Umberto Nordio, nel decennio tra i ’60 e i ’70, Trieste era in pieno impeto d’avanguardia, anche nella classe insegnanti. I miei più importanti maestri, infatti, erano anche impegnati nelle nuove ricerche estetiche: ricordo il designer Marcello Siard, che ebbe un ruolo fondamentale nella progettazione industriale, lo scultore Ugo Carà che mi sensibilizzava all’arte, Enzo Cogno e la pittrice e scenografa triestina Miela Reina, che, invece, mi orientarono sullo studio della comunicazione visiva. Questi ultimi due furono membri del gruppo triestino d’avanguardia Raccordosei, con Lilian Caraian, Claudio Palcich, Nino Perizi, e Bruno Chersicla. Il gruppo operava nel centro Arte Viva, proprio nella libreria Feltrinelli di Trieste, in cui confluivano le tensioni del rinnovamento, il desiderio di libertà e la voglia di contestazione di quegli anni: era il momento dell’Arte Programmata e delle nuove avanguardie. Alla Feltrinelli l’attività espositiva era molto intensa, c’erano grandi artisti e designer come Enzo Mari, Getulio Alviani, Bruno Munari e tanti altri, tra designer e cinetici, che andavo ad ammirare.

Nel 1967 partecipai con l’opera PNEU alla Biennale dei Giovani che si tenne nel Castello di Gorizia. Si trattava di un lavoro orientato alla ricerca del rilievo, realizzato inserendo un palloncino gonfiato tra un vetro e uno specchio retrostante.

Del 1967 è anche SCENA, maquette costruita con un unico foglio di cartoncino bianco tagliato e piegato. È un’opera che sembra una scenografia teatrale e, in effetti, l’avevo pensata proprio così: ho un fotomontaggio di quegli anni, nel quale mi ero incollato dentro il cubo in cui l’opera si sviluppava. Questa è stata forse la mia prima idea di tridimensionalità data ad una superficie piana e anche adesso, che sto pensando di applicare l’estroflessione al canneté, mi torna spesso in mente. Ma questo è un altro discorso sul quale di certo torneremo.

Nel 1968, quel cartoncino bianco che avevo usato per SCENA, prende ancor più tridimensionalità, potenziandosi in numerose strisce che seguono una determinata sequenza d’incastri. Viene così a crearsi una pluralità di cubi, a loro volta concatenati tra loro dalle strisce di cui sono costituiti, per risolversi infine in un unico grande solido chiuso. Quest’opera l’ho chiamata INTRECCIO e mi ha fatto piacere, molti anni dopo, vedere un’opera simile alla mia, realizzata sulla virtualità della tela da Jean-Pierre Yvaral.

Da INTRECCIO mi sono spinto avanti. La forma perfetta del solido si aprirà per esplodere, come se non reggesse più la tensione che lo compone. Prende così forma una nuova versione di INTRECCIO, che è una forma aperta da cui emergono, evidenziandosi, tutte le strisce di cui è composto.

In seguito, INTRECCIO diventerà una grande istallazione di piazza, negli anni di maggior fervore e contestazione: a quei tempi ci interrogavamo continuamente su tutto, soprattutto su che cosa fosse o non fosse l’arte. Per noi arte voleva dire “quotidiano”, doveva assolutamente farne parte e, per rendere tangibile questa nostra convinzione, proprio nel ’68 organizzammo un happening nel centro storico di Trieste. Fotografammo per le vie e le piazze, donne, uomini e bambini, ognuno intento nelle proprie attività quotidiane; dopodiché montammo le immagini su una struttura costituita da pannelli già predisposti per essere incastrati tra loro direttamente. Ne risultò, come opera finale, un insieme di enormi strisce fotografate, aperte come in INTRECCIO, ma composta dalle immagini fotografiche. Combinate e scombinate tra loro, come lati dei cubi, accoglievano e rispecchiavano ogni singolo individuo, affinché potesse ritrovare se stesso nell’opera, per riconoscersi dentro l’arte.

Purtroppo nelle fasi finali dell’installazione non potei esserci perché ormai militare.

Nel 1969, l’Istituto d’Arte che frequentavo indisse un concorso d’arte, per il premio provinciale studentesco. La gestione del progetto fu affidata alla Galleria La Cappella Underground di Trieste e la curatela all’eclettico critico Giorgio Celli. Per realizzare le opere con cui partecipai, m’ispirai ai grandi manifesti sparsi per tutta la città, in occasione della proiezione del film di Mario Monicelli l’Armata Brancaleone; erano cartelloni pubblicitari realizzati su un particolare materiale che ne esaltava il rilievo: tutto partì da lì! Ebbene sì! Cominciai a studiare il rilievo e a come riuscire a coordinarlo alla dinamicità di un’opera. Iniziai così ad approfondire l’utilizzo del canneté, con il particolare sistema che andavo sperimentando e creando. Vinsi il concorso con l’opera COMPOSIZIONE C. Mi fu chiesto se quel perfetto contrasto tra bianco e nero portasse in sé particolari significati; suppongo alludessero a rimandi filosofici cinesi, a collegamenti con il Tao, come rappresentazione globale dell’universo ed alle sue polarità nei principi fondamentali negativo/positivo, freddo/caldo, giorno/notte, rappresentati rispettivamente dal nero e dal bianco. Ancora oggi, come allora, posso rispondere che l’interpretazione resta libera. Fu in quell’occasione che nacquero i primi quattro “capisaldi” della mia “maniera”, se così si può chiamare: oltre all’opera vincitrice, TONDI, CERCHIOBN, CERTRIQUA e KUBIBN.

Purtroppo, l’Istituto Statale d’Arte Nordio, negli anni ’70 non era ancora parificato al liceo artistico e, per potermi iscrivere alla facoltà di architettura, dovetti sostenere, al Liceo Artistico di Pesaro, un esame con cui conseguire il diploma di liceo. Quello di Pesaro era specializzato in oreficeria e, in quell’occasione realizzai il mio primo e ultimo gioiello, un bracciale in argento a fasce sovrapposte con disegno mutevole che, in seguito venne messo in produzione dall’azienda Faro, Bigiotteria e Argento di Milano.

Nel 1974 realizzai un nuovo lavoro, che si basava sull’opera SCENA del ’68. Il foglio di cartoncino, in un primo momento, viene colorato con righe di acrilico, dopodiché viene tagliato e assemblato per risolversi in una forma triangolare contenuta in un cubo di metacrilato trasparente: il risultato è l’opera FOGLIO MODULATO.

Terminato il servizio militare, nei primi anni ’70, mi trasferii a Padova e il mio lavoro si trovò di fronte ad un bivio e imboccai contemporaneamente le due distinte strade: arte e design erano per me inseparabili.

Pensando alla mia carriera come designer, potrei indicarne il percorso in quattro fondamentali momenti. Il primo basilare contatto fu, proprio in questi primi anni Settanta, con la ditta padovana Longato Arredamenti, famosa per aver introdotto il complemento d’arredo in plastica stampata ad iniezione. Il secondo incontro, negli anni ’80, fu con la ditta produttrice di letti tessili Frau Flex di Mantova, con cui collaborai per circa venti anni.

Degli anni ’90, poi, è il terzo incontro con la ditta che operava a livello internazionale, Grand Soleil di Mantova, di cui ne divenni il designer.

Ultimo e attuale contatto è con la ditta produttrice di mobili per la zona notte Caccaro di Padova, di cui sono tuttora designer.

Per quanto riguarda la ricerca artistica, mi diressi verso l’Arte Cinetica e Programmata. Da sempre ero stato affascinato dall’illusione ottica, da quella strana perturbazione visiva, che oscilla in base al nostro spostamento di fronte all’opera. Il mio cubo doveva entrare in quella mutazione visiva, sintonizzandosi con la personale mia necessità di ricercare l’essenza, l’essenzialità, il lineare, aspirando sempre ad un’esistenza misurata e condotta sobriamente, in contrasto con l’ampollosa nostra contemporaneità.

Credo che la mia ricerca artistica possa considerarsi come la grammatica del design industriale, perché si libra sopra la grafica, la progettazione, il design, fino ad aprirsi all’arte. Non c’è istintività nel mio lavoro, ma metodo, serrato controllo e rigore; l’oggetto d’arte viene pensato, progettato e, a differenza del design, che lo vedrebbe successivamente realizzarsi, qui la stessa fase progettuale coincide con la concretizzazione finale dell’opera. Cerco ciò che vi è dentro gli oggetti, non fuori: il risultato di questa mia ricerca geometrica ha in realtà fondamenta e metro di paragone in natura, ove ogni cosa vive della propria particolare struttura; anche nell’arte ogni cosa deve avere la propria struttura.

Capisco che si possa riscontrare una certa ripetitività nel mio lavoro, nei miei moduli geometrici ridondanti all’infinito, ma vi assicuro che proprio questa meccanicità arriva a toccare un apogeo tanto lontano da dissolversi, quasi per esplodere, sprigionando un ritmo continuo che è il battito dell’anima dell’opera: proprio lì trovo la mia libertà. Anche una ricerca astratta può essere emozionata!

Per provare ad addentrarmi tra le mie opere le dividerei in tre cicli: il primo del BIANCONERO; il secondo del COLORE; il terzo delle forme che ho chiamato SIDER.

BIANCONERO La corrispondenza degli opposti.

I lavori quali KUBIK o DINAMICA nascono dallo studio di strutture fatte di strip: gli strip sono delle strisce che utilizzo per comporre i miei reticolati e le mie griglie. Combino e sommo gli strip fino a ottenere un elaborato che funzioni; dopodiché, in base all’incastro delle strisce che ho assemblato, intervengo per una messa a fuoco istintiva, con una maschera (o frame), e scelgo intuitivamente ciò che mi interessa di più, ciò che abbia per me un giusto rapporto tra vuoti e pieni.

Mi è stato chiesto se la griglia avesse potuto significare le regole di composizione a cui sottostare e la maschera le scelte e la libertà di farle: beh forse potrebbe essere, è una buona lettura!

Con la maschera prendo soltanto ciò che m’interessa e scelgo, dunque, quella che sarà l’opera, tagliando via l’eccedenza.

Credo che il ritagliare soltanto una zona da un’intera griglia, che continua oltre la parte da me scelta, faccia percepire la dinamicità dell’opera di partenza. Dopo aver fatto tutte queste prove e riflessioni cartacee, procedo all’esecuzione al computer, in una sorta di cartone preparatorio mentale, per studiare i vari piani del cubo e gli effetti cinetici. Così inizio il lavoro di realizzazione su canneté. Dapprima, con pennello pitturo di bianco il cartoncino ondulato e, una volta asciugato, procedo nella danza dei lineamenti a china.

La medesima sperimentazione diventa anche tridimensionale, in sculture, oggetti di design e istallazioni. Gli strip s’intrigano fino a divenire sculture in corten, luci in acciaio e opere di cinque metri in policarbonato.

Dagli incastri di cubi scomposti sono passato a RITONDI, opere nelle quali il quadrato si forma con cerchi di strip tondeggianti. Ma attenzione: la matrice è sempre il cubo, che adesso si “stonda” diventando un cubo di cerchi…(la mia magnifica ossessione!). Ne deriva un’opera aperta, come un fluido che viaggia libero, creando sovrapposizioni di cerchi pieni e vuoti.

COLORE La scelta cromatica.

Attraversati i bianchi e neri che compongono il primo ciclo, vorrei ora proseguire con il COLORE. Devo subito dire che il colore mi ha sempre spaventato e, tuttavia, mi ci sono immerso ugualmente. È una scelta complessa quella del colore, e calcolata, per riuscire a realizzare un’opera che possa essere fruita correttamente, almeno secondo i miei intendimenti. Il colore che scelgo come base per il canneté non è mai casuale, ma ragionato e studiato attentamente, per relazionarlo al frame scelto.

COLCUBO ad esempio è costituita dall’incontro di tre disegni in uno, dall’intersecarsi di tre scie come di meteore in una soltanto: tre meteore che fanno il loro ingresso sul palcoscenico dell’opera da tre direzioni differenti e, incrociandosi, creano un cerchio e la nascita dell’opera.

L’opera si presenta in tre immagini una dentro l’altra: ne risulta una visione frontale, una laterale destra e una laterale sinistra. Procedendo da sinistra si legge il primo lineamento, il disegno in blu, dal lato opposto il rosso, infine, al centro, nasce il terzo colore, il verde e, insieme a lui, l’opera. Questo è il colore risolutivo, perché dà senso anche agli altri due, nella percezione cinetica dell’opera.

SIDER Assoggettare le forme primarie

Il terzo ed ultimo ciclo del mio lavoro l’ho chiamato SIDER. Si tratta di forme in cui il formato standard, la quadratura, che fino adesso ha seguito un corretto equilibrio ed una esatta proporzione, viene destrutturato e sagomato in un nuovo modo. I primi SIDER nascono nel 2011, per uscire dal vincolo del quadro, per liberarsene e poter ottenere nuovi poligoni, volumi e nuove forme libere nello spazio della parete. Questo è coerente con il mio modo di pensare, mi lascio così andare nel fare l’opera, liberandomi da ogni vincolo anche se la progettazione resta come fondamento della ricerca.

La maschera ora esce dallo schema conforme, creando e prendendosi una libertà al di fuori dei confini abituali. Muovendola, si rompono gli equilibri del triangolo e del quadrato e la forma primaria diventa subordinata: la sagoma vira da triangolo a losanga, da quadrato a esagono, fino a poligoni irregolari e via dicendo…

Recentemente sto sperimentando come poter tagliare la superficie piana. In un’opera come SIDERALE, ad esempio, ritorna la mia antica idea dell’estroflessione del canneté: con un taglio riesco ad estroflettere una piccola parte del canneté, per portare l’opera dalla superficie nello spazio, in un incontro tra realtà e virtualità della percezione.

Il lavoro poligonale di SIDERKUBIK è in realtà la sovrapposizione di tre esagoni di dimensione diversa, che sommandosi, diventano superficie unica. L’opera perde la tradizionale quadratura per estendersi nello spazio con una forma frastagliata, libera e meno intuitiva.

In conclusione, mi sento di poter affermare che questa ricerca di tanti anni è la mia vita in opera o forse sarebbe meglio dire in opere!

Ho cercato, passando attraverso quelle che furono le prime ricerche programmate e cinetiche, di fondere e fare mia quella nuova visualità. Studiando ho approfondito anche le tematiche di un certo costruttivismo, mirando a realizzare un’arte che diventi intermediaria tra artista e fruitore.

Ho cercato di basare il mio lavoro soltanto sul contenuto, riducendo al massimo il mezzo e il materiale comunicativo, per lasciar spiccare il volo libero ad un messaggio dinamico che necessita del vostro sguardo.