“Renko in bilico” di Leonardo Conti

“Renko in bilico”, PoliArt Contemporary, Milano – Galerie Leonhard, Graz – Maab Gallery, Padova

Febbraio 2013


La ricerca di Sandi Renko si può certamente inserire in una strana categoria: l’utilità della visione.

Contrariamente a ciò che qualcuno avrebbe potuto aspettarsi (chi poi?), Renko non ha abdicato all’arte, a fronte di una folgorante carriera nel design. Ha mantenuto una distanza interiore, tra la pura ricerca e la funzionalità estetica, ponendosi in una dimensione contraddittoria, vivendo su un limite oscillante di se stesso. Credo che sia proprio questa la chiave per comprendere le particolari caratteristiche del lavoro di Renko, non completamente imbrigliabile nel vasto panorama del cinetismo internazionale: anche la declinazione tutta italiana di Arte Programmata, spesso invocata a proposito, può essere considerata come una componente, non certo esclusiva. Confluiscono, infatti, in modo altrettanto decisivo, una fortissima sensibilità gestaltica, l’essenzialità del minimalista e un riduzionismo rigoroso, incentrato sullo strumento privilegiato del designer: il pennarello acrilico, usato per realizzare schizzi e progetti. Ecco dunque emergere una ricerca che potremmo definire sincretica e che fa di Renko un artista borderline. La compresenza dell’artista e del designer, che in altri casi ha causato una rottura e una scelta e quindi una rinuncia, nel caso dell’artista padovano ha prodotto una sorta di cortocircuito creativo, in cui le opere e l’autore si specchiano e si scambiano. Del resto, così spesso l’arte diviene indiscernibile rispetto al modo di vivere.

Contrariamente a uno sdoppiamento inconciliabile, alla dott. Jekyll e Mister Hide, per intenderci, le due dimensioni di artista e designer si fondono in Renko in un’unica dimensione creativa pienamente svelata, come si vedrà, nelle caratteristiche dei suoi quadri. Le opere, infatti, sono una sorta di laboratorio interiore, in grado di innescare molteplici processi di applicazione, che ne rappresentano le possibilità vitali.

Il design, nel caso di Renko, è l’anello che lega l’arte a una funzione sociale utile, innescando quel circolo virtuoso di ritorno e di ricaduta, con cui la vita alimenta incessantemente la creatività. Del resto, come diceva Elias Canetti, “lo scrittore ha sempre una responsabilità civile” (e intendeva certamente gli artisti tout court). Cercando di usare il pensiero di Canetti, aggirandolo un po’, potremmo aggiungere che tutti dovrebbero fare opere d’arte, per legarle a un’applicazione vitale e a una responsabilità civile. Tra le prime applicazioni artistiche, mai venute meno, vi è certamente l’imparare a vedere e non soltanto per se stessi, ma per tutti, nella creazione di una sorta di “occhio collettivo”. L’arte ha sempre avuto questa funzione di vitale svelamento, anche se troppe volte postuma, rispetto alle epoche in cui è stata elaborata.

In Sandi Renko, così come in altri casi eccellenti, come Enzo Mari e Bruno Munari, il passaggio tra elaborazione artistica e applicazione utilitaristica ha finito per sovrapporsi e mescolarsi, producendo quella doppia funzione nella quale artista e designer sono divenuti indiscernibili. Non è certo un fenomeno nuovo questo tipo d’interdisciplinarietà, si pensi, ad esempio al Futurismo o al Bauhaus di ormai un secolo fa, eppure questa condizione, nella nostra attualità, è inspiegabilmente divenuta quasi inaccettabile. La tendenza a una sempre maggiore specializzazione in ambito tecnico e scientifico, ha progressivamente creato anche in campo “umanistico” (quasi in un complesso d’inferiorità), un discreto clima di sospetto verso coloro che si muovono su più piani: stridono un po’ un artista-architetto, un musicista-pittore, ecc. Al contrario, è ben più comprensibile uno scienziato-romanziere e si pensi, poi, all’utilità della cultura umanistica in campi del sapere come l’astrofisica o la fisica delle particelle, quando inventano metafore per assegnare nomi ai fenomeni nuovi nei quali s’imbattono: un caso è la stupenda catacresi di “orizzonte degli eventi”, per indicare la zona circolare intorno a quel misterioso corpo celeste che è il buco nero.

Un discorso a parte, invece, andrebbe fatto per altre commistioni, come certi politici e giornalisti, che usano la loro notorietà per vendere libri non di politica e non d’informazione. Ma, appunto, questo è un altro discorso.

Fatte queste premesse, spero non ci saranno più dubbi quando si cercherà la categoria più appropriata per Sandi Renko: artista o designer? Artista e designer, laddove le due categorie possano essere strettamente connesse e intercambiabili, in un’ottica di progressiva adesione alla realtà o, meglio, d’invenzione di modi di viverla, attraverso un continuo cambio di prospettiva. Vediamo come.

Il soggetto fondamentale di Renko, che diviene forma primaria (Minimalismo), per quanto non esclusiva, è il cubo. Ma un cubo particolare. Il cosiddetto cubo di Necker (caro alla Gestalt), denominato anche “romboide trasparente” perché si rovescia in profondità, creando un’instabilità percettiva, che rende impossibile il decidersi stabilmente su quali siano la faccia anteriore e quella posteriore. La ferrea persistenza tematica di questa figura mutevole, diviene una sorta di griglia modulare, un piano d’immanenza sul quale vive Renko. Vive lì davvero. L’artista e il designer sono i due lati indecidibili del cubo.

Renko è un divenire cubo, mentre il cubo (Kubik) già invade la realtà in un’inarrestabile progressione, si sostituisce a essa, la inventa, come se fosse per la prima volta; e il cubo è anche metafora della stanza, della casa, il luogo della nostra appartenenza; e i suoi lati sono pareti che si aprono incessantemente sul fuori, coinvolgendo quel fuori che siamo noi, nel movimento del suo inarrestabile divenire.

Ecco che la mutevolezza percettiva (dell’Arte Cinetica) si mostra come un insostituibile innesco per una dimensione esistenziale. Il tempo, infatti, che dobbiamo condividere con l’opera, per poterci muovere di fronte a lei e inoltrarci nella nostra stessa instabilità, è un tempo che non si perde, ma che si conserva in noi, facendo uscire l’opera di sé. Gli strumenti per realizzare tutto questo, poi, sono ridotti al minimo: canneté (cartone ondulato), acrilici e china. Con sapientissimo rigore progettuale, Renko, signore della luce e dell’ombra, interviene con la china e gli acrilici nelle creste o nei ventri delle piccole onde di cartone, già sapendo quali saranno gli effetti di mutevolezza percettiva secondo lo spostamento dell’osservatore. Quasi d’incanto, i lati dei cubi, moltiplicandosi, emergono e sprofondano nel cartone, giungendo a definire dall’interno la forma generale dell’opera: triangolo, quadrato, rettangolo, rombo ecc. Per Renko è quasi ridicolo parlare d’immagini che appaiono su un supporto, perché quelle immagini si confondono con il supporto, lo strutturano e lo stabilizzano nella sua oggettualità, facendolo divenire una forma primaria, sorretta dalla sua mutevole architettura interna. Per questo motivo, recentemente, nel ciclo “sider”, le opere hanno cominciato ad assumere forme geometriche irregolari, perché le forze del divenire interno agiscono sull’oggetto-quadro, sagomandolo in sempre nuove configurazioni. In un continuo riequilibrio con l’esterno (si pensi alla Shaped Canvas painting), queste opere di Renko, vanno interpretate come espansioni della forma nello spazio e nella luce: uno spazio che diviene esso stesso forma, nella compenetrazione delle reciproche forze. Del resto, quest’espansione nella tridimensionalità stava già avvenendo da tempo, come nelle esperienze spaziali e scultoree dei cicli degli “Intrecci” e dei “Plot”, nei quali il continuo ribaltamento del cubo produceva espansioni che riconducevano incessantemente alla loro matrice. In queste opere scultoree, la doppia virtualità del cubo si propaga come un’onda nello spazio, aprendo la stanza interiore dell’artista sul mondo. Un processo analogo avviene anche nella luce, o per gli effetti di riflessione sulle superfici lucide, oppure per la scelta di materiali plastici traslucidi, che paiono accendersi di una luce interiore: è questo il caso di un’opera come “Limina”, già inoltrata nei territori del design. L’ingresso dell’arte nel mondo, infatti, attraverso la coerenza della ricerca di Renko, deborda nei luoghi dell’utilità funzionale, conducendolo a pensare e produrre oggetti utili. Di qui, poi, riparte il circolo virtuoso, in cui l’apparente dualismo della personalità, l’artista e il designer, si mostra in una cangiante interezza, attraverso quel continuo scambio tra virtualità e realtà, nel quale tutti noi siamo coinvolti.

Sul limite

Certamente qualcuno si chiederà che ne sarà della nostra pregevole predisposizione a considerare l’arte una vocazione piuttosto che un mestiere. Nonostante ci siano sempre alcune persone che considerano l’artista come uno che fa cose inutili. Probabilmente le stesse persone che, quando hanno finito di arredare la casa, accorgendosi delle pareti bianche, cercano dipinti che si accordino con i colori dei divani, non cogliendo la differenza tra un divano e un dipinto. A proposito, che differenza c’è tra un divano e un dipinto? E tra una lampada e una scultura? Ecco, questo è il punto, o il limite, su cui da sempre oscilla la creatività di Sandi Renko.