“In studio con Sandi Renko” di Carlotta Salem

“Renko in bilico”, PoliArt Contemporary, Milano – Galerie Leonhard, Graz – Maab Gallery, Padova

Febbraio 2013


Lo studio di Sandi Renko, a Padova, in una collocazione tipicamente underground occupa buona parte della sua abitazione. Entrando, mi ha subito colpito la stessa atmosfera di viva semplicità, mescolata al rigore e alla molteplicità delle idee, che anche l’artista sembra emanare. Ci siamo accomodati attorno al tavolo da lavoro, davanti a un grande computer e circondati da silenti spettatori che assieme a lui mi stavano aspettando: le sue opere.

Carlotta Salem

Maestro, comincerei con un paio di domande forse troppo banali: Dove è nato? Qual è stato il suo percorso di studio?

Sandi Renko

La prego, non mi chiami maestro, facciamo Sandi. E già che ci siamo, preferirei se ci dessimo del tu.

C. S. Molto volentieri.

S. R. Sono nato a Trieste nel 1949 ma le mie origini sono slovene. Ho studiato a Trieste negli anni ’60 dove ho frequentato l’Istituto d’Arte Nordio, avendo come insegnanti grandi maestri tra i quali Miela Reina, Enzo Cogno ed Ugo Carà. In quel periodo dirigevano, presso la libreria Feltrinelli, la galleria, dove poi sono passati tutti gli artisti che in qualche modo hanno trattato l’Arte Programmata, da Enzo Mari a Bruno Munari, a Getulio Alviani. È stata un’occasione importante per me conoscere quegli artisti, all’epoca giovani anche loro. Ho guardato le loro opere per mesi, cercavo di carpirne i segreti: solo più tardi ho compreso che stavo cercando di capire me stesso.

C. S. C’è qualche evento particolare a cui hai partecipato agli inizi della tua carriera?

S. R. Sì, quando vivevo a Trieste ho preso parte a diversi eventi, soprattutto happenings. In quel periodo, infatti, c’era un acceso dibattito intorno all’Arte. La contestazione metteva in discussione il modo di vedere l’arte tout court. Ricordo, in particolare, un evento del 1968, svoltosi a Trieste, dove Giampiero Ferlan, Claudio Toncinich ed io avevamo raccolto e accatastato una serie di oggetti “inutili” dei quali la gente si era liberata. Cercavamo di creare un’opera che si contrapponesse all’arte riservata a “pochi eletti”: era un modo per dimostrare come anche gli oggetti rifiutati dalle persone, e quindi, senza importanza, potevano comunque dare vita a qualcosa. Volevamo indagare fino a dove l’arte potesse arrivare nella sua capacità di dare nuova vita alle cose. In un evento successivo, questa volta anche con Mario Viezzoli, in piazza Unità d’Italia, le nostre opere furono così trasgressive da far intervenire le forze dell’ordine. Contestavamo la ricorrenza del 4 novembre, nel suo cinquantenario.

C. S. Quando hai deciso di trasferirti a Padova?

S. R. Il mio insegnante di progettazione Marcello Siard era art director di un’azienda padovana e mi propose di lavorare insieme a lui. Accettai. Si stava manifestando il mio interesse anche per il design, che in realtà, non ho mai disgiunto dalla ricerca artistica. Fu questa l’occasione per trasferirmi definitivamente a Padova nel 1971.

C. S. Ci sono altri artisti di quegli anni che hai incontrato e che hanno avuto un peso nelle tue scelte creative?

S. R. All’inizio degli anni ’70, a Padova, ho lavorato in uno studio fotografico, il cui direttore era Edoardo Landi, importante esponente del gruppo N, che in quel periodo si era già sciolto. Qualche anno più tardi ho conosciuto anche Alberto Biasi, che ammiravo molto. Questi incontri furono essenziali, perché questi artisti rappresentavano il cuore dell’arte cinetica e programmata, alla quale mi sentivo vicino. Tuttavia guardavo anche all’estero e gli artisti che mi hanno colpito maggiormente e ai quali mi sono sentito più vicino, sono stati Jesus Rafael Soto, Carlos Cruz-Diez e Victor Vasarely.

C. S. Ma sei nato prima artista o designer?

S. R. Il design e la ricerca artistica sono complementari nel mio lavoro. Ho sempre avuto un interesse per l’arte e per la fotografia, attraverso la quale, fin da ragazzo, mi allenavo a guardare la realtà e gli oggetti: mi ero persino costruito una camera oscura. Cercavo di trovare un legame tra l’arte e la vita, tra le opere e gli oggetti utili. È così che ho cominciato a progettare. Progettare è divenuto il metodo per indagare la realtà, dalla quale cominciavano ad apparire opere e oggetti. Non ci sono dubbi, anche l’arte di cui mi occupo si avvicina molto alla progettazione e la mia ricerca artistica è vicinissima al design. Comunque, da un punto di vista strettamente cronologico, mi sono dedicato in un primo momento all’arte, soprattutto all’Arte Programmata e all’Optical Art e in un periodo successivo mi sono avvicinato al design e alla progettazione industriale.

C. S. Hai prodotto oggetti particolari nell’ambito del design?

S. R. Uno dei primi oggetti più significativi che ho creato è stato uno slittino gonfiabile, che poi non venne prodotto, ma con il quale, nel 1974 sono stato selezionato, unico italiano, al premio Braun. Questo mi ha dato grandi soddisfazioni: il mio metodo cominciava a funzionare. Ho avuto modo così di approfondire la progettazione di elementi industriali soprattutto in plastica tanto che dagli anni novanta in poi mi sono occupato di arredo da esterni come seggiole, tavoli e lettini in materiale plastico. Prodotti da vivere all’aria aperta, per la vita di tutti i giorni. Ecco: la vita di tutti i giorni. Spero che anche le mie opere, per quanto non funzionali possano essere fruite nella quotidianità.

C. S. Quando hai incontrato il cubo?

S. R. Il cubo per me è un’ossessione, una mania. I miei primi lavori, che risalgono al 1967/1968, erano scenografie realizzate in carta, già caratterizzate dalla presenza del cubo. Anche oggi nelle installazioni in policarbonato, di grandi dimensioni, il cubo è la matrice di tutto. È una figura che nel corso della mia carriera non ho mai abbandonato. Il cubo diventa un punto di partenza per costruire una tridimensionalità illusoria nelle opere in cartone ondulato alle quali viene conferito un movimento virtuale a seconda del punto di vista che si adotta, creando effetti ottici. Queste forme geometriche regolari possono estendersi all’infinito, aprendo la superficie e lo spazio, per la creazione di forme imprevedibili. Come ti dicevo, quello a cui tengo soprattutto è la modalità, il percorso con cui si arriva a creare qualcosa. Il processo diviene una parte fondamentale del lavoro e il cubo arriva ad essere quasi un pretesto per indagare a fondo la progettazione. In questo percorso ha un ruolo fondamentale anche la qualità dell’opera e la ricerca dei materiali giusti per realizzarla: la costruzione, infatti, deve basarsi su una coerenza che tenga presente tutti gli aspetti del lavoro. Non amo l’improvvisazione, il mio obiettivo è un’indagine profonda, pensata, ogni passaggio della creazione non deve mai essere abbandonato al caso.

C. S. Quali sono i materiali che utilizzi per realizzare i tuoi lavori?

S. R. Utilizzo spesso il cartone ondulato che, come detto in precedenza, ben si presta alla creazione di effetti ottici: è un materiale di tipo industriale, utilizzato per gli imballaggi. Lo preparo, lo tratto e lo dipingo, cerco di adattarlo al meglio per poter esprimere le mie idee. Un altro materiale per me importante e che adopero spesso è il policarbonato alveolare, leggero e resistente, che mi permette di lavorare con la luce, creando molteplici effetti di riflessione.

C. S. Qual è il tuo rapporto con il colore? La tua scelta è legata a motivi particolari?

S. R. La stesura del colore è un momento fondamentale dell’atto artistico. Personalmente cerco di utilizzare il colore in modo attento, cosciente, cerco sempre di dargli una motivazione, una spiegazione correlata ai contrasti, ai pensieri, alle vibrazioni e alle sensazioni che voglio esprimere. Così come cerco d’indagare le forme, così faccio con i colori, ma in modo razionale non istintivo. La scelta di una tonalità è pensata, non utilizzo il primo colore che mi viene in mente.

C. S. Parlando nuovamente del cubo, vi è un legame tra questa figura e la casa?

S. R. Non lo so, non credo, almeno non consciamente: il cubo è onnipresente, anche se utilizzo altre forme geometriche come il cerchio, ma in realtà dietro appare sempre la struttura del quadrato. Queste figure geometriche sono forme elementari che si ritrovano anche in natura. Basta pensare a un albero, che con i suoi rami e le foglie è visto come una forma libera. In realtà non è così, l’interno è caratterizzato da una precisa struttura geometrica che all’esterno non è visibile: tutto diventa più chiaro attraverso un’indagine profonda. L’analisi non si basa sull’aspetto esteriore ma interiore. È un’analisi scientifica, chiara: ciò che viene esposto è così come si vede, non ci sono trucchi, c’è il gioco cinetico, ma non ci sono finzioni. Deve esserci un rapporto limpido, sincero, sia da parte dell’artista, sia da parte di chi guarda.

C. S. Chi sono le persone più importanti nella vita di Sandi Renko?

S. R. Le persone più importanti sono mio figlio, Ivan, al quale sin da piccolo ho cercato di trasmettere delle passioni tanto che oggi è pilota di aerei. E la mia compagna Gabriella, con lei ho solcato i mari in barca a vela per arrivare ai Caraibi, in un viaggio indimenticabile.

C. S. Parlando con te, ho la sensazione che la timidezza del tuo carattere sia una via per vivere in profondità…

S. R. Sono una persona timida, è vero, mi piace stare per conto mio, anche se la timidezza a volte può creare delle difficoltà, soprattutto dal punto di vista lavorativo… Ma poi, quando ci si riconosce per quello che si è, si impara a stare bene con se stessi e con gli altri.

C. S. Le tue ambizioni?

S. R. L’esposizione delle opere è una grande soddisfazione per l’artista, anche se l’atto, il momento creativo è il momento più profondo, per quanto personale. Tramite l’esposizione s’instaura un rapporto con le persone che ammirano, guardano e cercano di comprendere le opere e se stessi, come ho fatto io sin dall’inizio. Anche se non si è presenti, solo il fatto di sapere che i tuoi lavori sono guardati, è molto gratificante e dona l’energia che serve per andare avanti. Tutti noi abbiamo grandi sogni, ma poi ognuno nel proprio percorso arriva fino a dove gli è dato arrivare.