“CREDERE NELL’EVOLUZIONE DEL LINGUAGGIO” DI MATTEO GALBIATI

“Fuori dalle righe”, Palazzo del Monferrato, Alessandria

Gennaio 2020

Conversazione tra Sandi Renko e Matteo Galbiati


In occasione della mostra che la galleria FerrarinArte dedica a Sandi Renko, abbiamo avuto il privilegio di un incontro con il maestro nel suo studio di Padova dove, seguendo una piacevole discussione di una giornata intera, abbiamo ammirato il suo archivio e ripercorso tutta la sua ricerca attraverso le fasi salienti della sua riflessione artistica. Opera dopo opera, scritto dopo scritto, ricordo dopo ricordo Renko ci ha svelato, con il garbo e la misura che lo contraddistinguono, la coerente visione del suo pensiero. Riassumiamo le tappe salienti di questo nostro ricco e stimolante dialogo:

Come hai iniziato il tuo percorso?

Ho iniziato a realizzare le mie prime opere – ancora sperimentali – fin dagli ultimi anni dell’Istituto d’Arte, erano sperimentazioni geometriche sempre in ambito pittorico ed avevano già la conformazione di quelle che sarebbero arrivate poi gli anni successivi. Era la fine degli anni Sessanta, anni complicati e rivoluzionari, soprattutto dopo la tempesta del ’68, quando si erano affermate espressività, divenute prioritarie, che avevano adombrato e quasi messo in esilio i linguaggi tradizionali come la pittura. Avevo presentato un’opera ad un concorso scolastico e, nonostante l’avessi vinto, non ho mai ritirato l’opera per una vergogna indotta, quasi mi sentissi colpevole di essere pittore.

Quali sono stati i modelli e gli spunti su cui ti sei formato?

Ho iniziato a lavorare nell’ambito aziendale quando, arrivato a Padova, fui assunto come assistente di Marcello Siard che era art director in un’azienda padovana. Qui conobbi poi Edoardo Landi, ormai ex membro del noto Gruppo N, e fu per me di fondamentale importanza, perché non solo mi introdusse nell’ambiente artistico padovano, ma nei suoi lavori trovai anche quelle corrispondenze e quelle sintonie operative che ci fecero avvicinare sulla concezione pittorica, soprattutto rispetto a quella in cui si possono ritrovare elementi definiti meccanicamente dalla tecnologia e dall’industria. In questo senso mi si sono aperte due strade: il lavoro da art director che era più diretto e concreto, accanto a quello più complesso del designer industriale (non quello d’avanguardia che ha meno pressioni rispetto alla produttività delle sue idee e dei suoi progetti) e poi la visione artistica, che attingeva forze e spunti dallo stesso esercizio quotidiano della mia attività lavorativa. L’ordine, il metodo, la strutturazione precisa dei miei progetti hanno influenzato la determinazione del mio linguaggio artistico. Le diverse aziende per cui ho lavorato mi hanno messo nella condizione di mantenermi costantemente aggiornato rispetto alla ricerca, alla soluzione di forme, alla funzionalità e all’attualità di quello che sarebbe stato prodotto. Quella metodologia di sperimentazione attenta l’ho trasferita al metodo della mia riflessione artistica.

Quali sono stati i tuoi maestri? Cosa hai acquisito da loro?

Naturalmente Munari, il più grande di tutti: mi ha sempre colpito per la sua libertà e la sua visione, capace di passare dal design ad altro senza tradire la propria identità e il proprio pensiero. Artista, designer, teorico, filosofo, esteta, rivoluzionario, geniale… Un temperamento da uomo rinascimentale. Poi Mari, di lui ho sempre ammirato l’estremo rigore. Aggiungo Sottsass che ha saputo agire con una frattura netta; ha rotto gli schemi del design, mettendo in discussione il rapporto forma-funzione. Lui ha saputo mettere in crisi noi che allora eravamo giovani e ci eravamo formati con un certo tipo di schemi precostituiti. Il suo lavoro ha spezzato tutte le certezze.

Poi ricordo il direttore della mia scuola superiore a Trieste che, nel 1969, mi convinse a partecipare a quel concorso, il mio primo, e con un’opera che non aveva contenuto di denuncia sociale, una trasgressione per un giovanissimo artista di quell’epoca. Sono debitore anche agli artisti Enzo Cogno e Miela Reina che gestivano lo spazio espositivo Centro arte viva alla Feltrinelli di Trieste, mi hanno molto incoraggiato a seguire la mia ispirazione artistica. Come dicevo, la pittura l’avevo snobbata, non la si seguiva negli anni della contestazione. Si parlava comunque della pittura di gesto americana e anche di quella concreta dei sudamericani. Le cose allora andavano cercate con volontà in quei contesti dove avvenivano, le fonti erano limitate, diversamente da oggi, quando gli stimoli forse sono eccessivi e fuorvianti. Io poi cercavo una pittura che risultasse da un incontro con le posizioni della tecnologia, della macchina: i mezzi contemporanei danno altri spunti, altre suggestioni e possibilità. In quegli anni nonostante i limiti mi sentivo molto lontano dalle posizioni di chi lavorava con i mezzi e i metodi tradizionali e accademici.

Trieste e Padova sono le due città per te fondamentali: quali differenze culturali hai sentito e vissuto in questi due luoghi?

Fino alla fine delle medie ho frequentato a Trieste le scuole slovene, poi quelle italiane. Fu un cambio tranquillo, parlavo tutte e due le lingue e la città restava legata ad un contesto mitteleuropeo, un luogo di confine dove la cultura slovena era molto presente. Arrivato a Padova tutto cambiò, lo scambio culturale con l’ambiente sloveno venne meno e trovai un altro clima culturale e altri spunti, come ho detto, molto utili sia per il mio lavoro di designer che per quello di artista. Alla cultura slovena mi sono riavvicinato di nuovo solo negli ultimi anni.

Ti sei mosso tra discipline diverse – pittura, scultura e design – ma come si combinano in un segno di convergenza la visione di questi mondi differenti?

Tutto inizia da una riflessione sul movimento tra un quadrato e un cerchio, i due elementi chiave di ogni mio intervento. Da questo sono nate, oltre alle opere pittoriche, anche le sculture come lettura delle infinite possibilità di un elemento metallico ripetuto uguale a se stesso che, piegato geometricamente con andamento a zig-zag e basato sempre sulla figura di un quadrato in successione, somma, nelle sue rotazioni, forme che generano cubi intrecciati l’uno dentro l’altro e sempre diverse nell’esito finale. La pratica della progettualità del design e l’approccio che determina hanno guidato la mia mano e il mio pensiero, hanno strutturato la mia forma mentis. L’ho portato in pittura, dove incontro il colore e ri-definisco il modo di sviluppo tridimensionale, pur rimanendo un approccio grafico ai volumi e alle forme. La mia pittura somma rigore e impeto, disegno e gesto libero, colore e forma. Credo sia sempre stata una ricerca, la mia, che sfugge a canoniche definizioni.

Quale approccio hai rispetto la materia con cui operi?

Dovrei dire le materie, visto che agisco su fronti differenti che impongono materiali altrettanto differenti, comunque per me resta prioritaria la forma mentale con cui mi approccio al lavoro. Una forma che ho costruito nel tempo, con l’esperienza, e che ha la precisione come canone da seguire. Il materiale dipende da quello che voglio realizzare e, ricorrendo come sai a materie di derivazione industriale, dipende molto dal momento della produzione. Materiali che c’erano negli anni Settanta non ci sono più oggi, mentre altri nuovi si sono presentati sul mercato. I materiali cambiano, io li adatto e li “sfrutto”. Mi piace molto pensare di usare qualcosa che è nell’uso comune.

Negli ultimi lavori, invece, avverto il desiderio di liberarmi, di aprirmi a forme meno definite e meno pure; già nelle opere luminose avevo introdotto una nuova ispirazione. Sono un appassionato alpinista, e per me, seguire questo percorso, è come andare in montagna: solo dopo una lunga e attenta risalita si può apprezzare la conquista della vetta. Resisti sempre, anche se ti viene voglia di mollare!

Ordine e caos, geometrie puntuali e fluidità delle forme, rigore e movimento, le tue opere suggeriscono spesso un’alternanza di opposti, come si bilanciano questi diversi equilibri? Questo tipo di linguaggio quali valori porta avanti su cosa si fonda?

Sono sempre stato ateo e agnostico, credo fortemente nell’astrazione non nella figura definita, in questa non riesco a leggere mai un qualcosa di assolutamente originale o autentico. Nel mondo concreto devo già confrontarmi con quello che c’è. Poi abbiamo altre sorgenti di pensiero che ti fanno riflettere, penso ad esempio alla musica: la ascolti, ma non ti obbliga a vedere qualcosa di forzato, ti lascia sempre lo spazio per andare oltre. Importante è trovare il proprio spazio di libertà che toglie da schemi e rigidità.

Il processo esecutivo, quasi meccanico, che comporta un palese occultamento della manualità quanto conta nella tua visione e nell’esito finale dell’opera?

Il tipo di espressione e di tecnica cui ricorro non sono importanti, non mi sembra rilevante nemmeno vedere la singolarità della mia mano; è fattibilissimo pure che non ci siano “temi” nella mia ricerca. Il principio assoluto è l’idea, il progetto, poi arriva l’intenzione. È in questa modalità che non si rivela mai un occultamento, ma si porta attenzione su un altro tipo di evidenza.

In cosa resta attuale il tuo linguaggio, la tua proposta?

Bisogna scindere quello che si fa dal contesto, così non ti poni il problema di essere attuale o meno. Sei attuale quando fai andare avanti quello che hai realizzato. Puoi anche non avere un aggancio manifesto col presente, sia nei mezzi che nelle forme che possono non essere attuali, eppure si riesce ad essere comunque efficaci nel presente.

Quello che mi preme è il linguaggio, credo molto nella sua evoluzione ed è questo che mi interessa.